[Del buon uso del pessimismo, Lindau 2011, è uno dei capolavori di Scruton, da cui traggo le citazioni che figurano in questo articolo]
A milioni di giovani e meno giovani, il mese di maggio 1968 provocò un orgasmo ideologico dagli effetti devastanti e irreversibili.
Indossato il fatidico eskimo come fosse un laticlavio, invasero le strade e le piazze, occuparono le Università sotto lo sguardo benevolo dei docenti più ‘illuminati’, si inebriarono di slogan contro la detestata borghesia capitalista invocando l’avvento dell’«immaginazione al potere», senza il minimo sospetto di esserne totalmente privi e col cervello allo sbando, in preda ai farneticanti dogmi del materialismo dialettico.
Se i loro santi protettori erano Marx, Lenin e Mao, i demoni contro cui scagliare le frecce infuocate dell’avversione, fino a svuotarne l’immensa faretra, erano gli esponenti del pensiero liberale e soprattutto di quello religioso, legato all’antica tradizione che vige in Occidente da duemila anni. La potenza che ai loro occhi rappresentava l’incarnazione del Male aveva un nome e un acronimo: gli Stati Uniti d’America, gli USA. E ciò non soltanto in ossequio all’anatema permanente del Cremlino, ma anche perché risulta assai più agevole vestire di sembianze mostruose un popolo lontano, al di là dell’oceano, che non le persone a portata di schioppo, capaci con la loro muta presenza di farci cadere nel panico.
Di un fatto possiamo essere certi: l’entusiasmo rivoluzionario, al pari di quello amoroso, sarà sempre esente dal senso dell’umorismo. Non però da quello involontario. Eccone un ragguardevole esempio, nel resoconto di Roger Scruton: «Ci sono poche cose più comiche degli scritti della Scuola di Francoforte in esilio, e in particolare di Adorno e Horkheimer, i quali giunsero in California solo per trovarsi davanti alla spaventosa visione di una classe lavoratrice non alienata come essi invece credevano. Adorno si accinse allora a dissipare questa illusione, scrivendo pagine e pagine di sciocchezze enfatiche volte a dimostrare che il popolo americano era alienato tanto quanto i marxisti esigevano».
Sebbene gli Stati Uniti, dall’epoca dei francofortesi in esilio in poi, abbiano avuto modo di degenerare moralmente, in balìa del nichilismo di fondo che attanaglia la psiche dell’uomo occidentale, ciò non significa che tale degenerazione sia dovuta a un difetto intrinseco del liberalismo economico, né che seguendo i precetti leninisti sarebbe stato realizzabile qualcosa di diverso da una cupa tirannide. Cupa e paranoide.
Infatti, «quando gli utopisti giungono al potere, l’instabilità stessa del loro obiettivo, che rimane sempre lontano, li obbliga a trovare, nel mondo reale, il gruppo di nemici o la cospirazione che sta impedendo loro di realizzare l’ideale.
È questa […] la caratteristica più rilevante degli stati totalitari: il bisogno continuo e implacabile di una classe di vittime, la classe di coloro che intralciano la strada dell’utopia e impediscono la sua realizzazione».
Comica al massimo grado fu anche la cecità con cui gli intellettuali della sinistra francese accolsero l’ayatollah Khomeini a fine anni settanta, scambiando il suo odio antiamericano per un’implicita dichiarazione di fede comunista.
Ma l’intrepido capo spirituale degli sciiti, una volta rientrato in Persia e proclamata la repubblica islamica, diede sbrigativamente il benservito agli atei parigini e ai loro fiancheggiatori.
Possiamo comunque far risalire al maggio 1968 la rapida diffusione di un punto di vista che già esisteva, senza dubbio, ma soltanto a livello di circoli intellettuali, universitari o di partito: la convinzione secondo cui, per rendere giusta una società, sia necessario imporre uno strenuo egualitarismo, unica garanzia di libertà e progresso. Peccato invece che, «se le persone devono essere uguali, occorre togliere loro la libertà», come scrive Roger Scruton parafrasando un passo delle Riflessioni sulla rivoluzione francese di Edmund Burke, il politico e filosofo britannico giustamente orgoglioso di contrapporre all’insano esperimento rivoluzionario la tradizione, ovvero la «ragionevolezza intrinseca a soluzioni consolidate, nate nel corso del tempo da un processo di prova, errore e consenso, e attraverso la libera cooperazione degli individui».
Quei bravi soixante-huitards, invasati d’utopia come i loro precursori settecenteschi, non si rendevano conto che l’alternativa fra libertà e uguaglianza è un dato logico inconfutabile. Una esclude l’altra in via di fatto e di principio. Tant’è vero che i giovanotti in eskimo e anfibi potevano tentare di imporre la loro panacea egualitaria perché si trovavano in Francia, vale a dire sul territorio di uno Stato in cui, fra le altre libertà, vigeva anche quella di poterlo contestare! Forse in Cina, a Cuba o nell’URSS era praticabile qualche forma di pubblica protesta?
Se fossero stati meno miopi nel contemplare i loro idoli politici, avrebbero appurato che l’egualitarismo non solo distrugge la libertà, ma finisce altresì per abolire la neonata uguaglianza, instaurando un sistema totalitario. Infatti, se si attaccano le istituzioni in nome dell’uguaglianza, anche quest’ultima sarà in breve spacciata. E ciò avviene perché l’uguaglianza radicale non può derivare che dal sopruso, mentre la libertà è sempre una conquista dello spirito.
Per dirla con Scruton, essa «non è un dono della natura ma il risultato di un processo educativo, qualcosa che dobbiamo acquisire attraverso la disciplina e il sacrificio».
L’egemonia ideologica instauratasi o rafforzatasi dopo il maggio 1968 negli stati dell’Europa occidentale, era perfettamente in linea – coincidenza curiosa – sia con le strategie suggerite da Mosca, che auspicava una generale destabilizzazione delle società capitaliste, sia con la dottrina e la pratica del libero amore e l’uso di sostanze psicotrope sviluppatasi qualche anno prima in America e trionfalmente approdata nel vecchio continente.
Ma il fatto che non si sia diventati schiavi alla catena del Cremlino non implica che ogni schiavitù sia stata evitata.
È anzi evidente che il mondo politico, economico e giuridico degli ultimi cinquant’anni ne porta i segni indelebili, mentre osa pavoneggiarsi delle proprie vuote istituzioni, simulacri di libertà in sfacelo.
Nel 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, suonava la campana dell’ultimo giro per l’impero sovietico, ormai maturo per abbracciare i vizi dell’Occidente insieme alle sue moribonde libertà. Più tardi, è stata la volta della Cina, e forse oggi anche Cuba si appresta a seguire la medesima strada.
Purtroppo, il vizio tiranneggia chi vi si abbandona, così come la tirannia perseguita ogni popolo che rinunci alla virtù. Nessuna società può mantenersi libera se ha voltato le spalle alla Legge di Dio, poiché tutti prima o poi, uomini e donne, inizieranno a vagare nel buio con le mani piene di vermi.
Questo spiega il motivo del duplice fallimento, sovietico e capitalista.
Nel primo caso, il tracollo morale fu istantaneo – potremmo farlo coincidere simbolicamente con il massacro dei Romanov a Ekaterinburg – nel secondo, invece, si è prolungato in una dolorosa agonia.
I due differenti decorsi si giustificano studiandone l’origine. Mentre il materialismo comunista pianta il vessillo dei propri demoni nella mente di chi gli presta orecchio, il capitalismo contemporaneo si rivela figlio depravato di una nobile scuola di pensiero, fondata da John Locke sul versante politico e da Adam Smith su quello economico.
Anche l’America, ultima terra su cui tramonta il sole, assiste ormai da tempo all’affievolirsi della fede. Così si appresta alla rovinosa caduta come i suoi cugini d’Europa: un’accozzaglia di disperati che anelano all’autodistruzione.
Locke affermava che uno Stato non deve tollerare la presenza degli atei. Questa opinione è per molti quasi un oggetto di ludibrio, e ci si domanda attoniti come il padre del liberalismo abbia potuto essere tanto bigotto… Ma osservando con animo distaccato l’esistenza che trascinano i popoli occidentali, democratici e pluralisti, come non riconoscere la profonda saggezza della tesi lockiana?
Adam Smith chiarì una volta per tutte, nella Ricchezza delle nazioni, che il libero mercato è senz’altro in grado di autoregolarsi, a patto che i sudditi (ora cittadini, con la benedizione di Robespierre) siano moralmente retti.
Dunque, il liberalismo economico si disintegra, capovolgendosi in sopraffazione, quando un popolo diventa corrotto.
Se la tirannia giacobina e sovietica ha legalizzato la sopraffazione in nome di una chimerica uguaglianza, gli Stati in cui vigeva il libero mercato si stanno ora sgretolando a causa di un sisma che origina, in ultima analisi, dall’assenza di virtù morali e sociali, un’assenza di cui soffrono da troppo tempo singoli individui e popoli interi.
I teorici stessi del liberalismo si sono trasformati in grottesche parodie dei loro illustri predecessori.
Chi oggi si proclama liberale, lo vediamo battersi in prima fila per «eliminare i vincoli morali dal diritto e da qualsiasi altro luogo in cui possano trovare un punto d’appoggio duraturo nella società». Non solo: mentre costoro propugnano per un verso l’intervento e il controllo statale in ogni ambito della sfera pubblica, per l’altro caldeggiano la totale anarchia nella sfera privata.
Potremmo concludere, in sintesi, che gran parte del sedicente liberalismo attuale è un mostro bifronte che predica dottrine simili a quelle del marchese de Sade per la gestione della vita privata – consentendo l’aborto e ogni sorta di nefandezze – e dottrine affini al dirigismo socialista per quella pubblica.
Non si tratta soltanto di un grave strabismo, ma di un vero e proprio rinnegamento dei presupposti e dei princìpi del pensiero liberale.
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Grande Mario, vorrei avere la tua preparazione culturale ma non la ho
Per questo ti ammiro e ti voglio bene, speriamo di vederci presto ciao