
Come l’Italia perse la sua grande industria sull’asse Torino Roma degli anni ‘980; la danza di ministri boiari di stato e grandi imprenditori intorno al mito fratelli Agnelli nello specchio del ricordo d’un manager della sarabanda.
Il mito di Narciso, il bellissimo giovane che, chinatosi per bere, nello specchio d’una fonte scorse la propria immagine e se ne innamorò perdutamente, individua e descrive una categoria universale chiave della psiche umana.
Questo appunto ci riconferma il pubblico ringraziamento levato da Trump all’Altissimo, nel discorso della sua seconda investitura: un sentito grazie per averlo protetto dagli assassini.
In ambito letterario il narcisismo assume una sua peculiare forma, individuata nei progetti editoriali e negli scaffali delle biblioteche dal termine autobiografia, un genere di scrittura di difficile abbordo, come prova il fatto che nell’arco del mezzo millennio di vita della nostra lingua, solo tre autobiografie sono ascese all’Olimpo della grande scrittura: l’autobiografia del Cellini, quella dell’Alfieri e quella del d’Azeglio.
Tre autobiografie di grandi esiti perché la smoderata pulsione narcisistica che ha spinto gli autori alla scrittura è sapientemente temperata dal mantice mentale d’un occhio critico che percorre le pagine per un vento di penetrante ironia, nel delineare personaggi e situazioni.
Ci sono ancora altre due non meno importanti autobiografie di narratori italiani, ma redatte in francese: quella del Goldoni e quella smisurata del Casanova le cui pagine sono indispensabili per ricostruire la nascita dello stato moderno con la sua finanza e i suoi infernali servizi segreti, il tutto in piccante salsa frodolenta sessuale; infatti Casanova è stato un agente copertissimo dalla Serenissima, infiltrato nelle varie corti europee.
Lungo l’asse Torino Roma, che caratterizza l’autobiografia del d’Azeglio, purtroppo la cui stesura interrotta dalla morte, si svolge anche l’intrigante autobiografia di Antonio Mosconi, Il giusto peso, (Europa Edizioni, 2024, pp 334 € 19,50).
Un consistente mannello di pagine, a dire che il Narciso nell’autore ha una sua soda consistenza, ma insaporita da quel costante refe d’ironia vivificante che abbiamo già individuato essere il fondativo elemento di riscatto estetico del genere.
Quella che percorre i capitoli de Il giusto peso è una ironia di chiara impronta manzoniana, le cui pagine Mosconi ha frequentato come quelle della Commedia.
L’autore è, per usare la metafora galileiana, anch’egli homo sanza littere, diplomato ragioniere presso l’istituto tecnico Sommeiller e poi in economia e commercio, già lavorando presso l’istituto bancario San Paolo.
Intelligenza brillante, ha coltivato il piacere della lettura dei classici, mentre maturava una eccentrica scelta politica, schierandosi per una visione federalista europea, impronta anche della sua politica lavorativa.
Gli si attribuisce una natura mossa da suggestioni ascetiche, temperate dalla ricerca d’una visione d’insieme cosciente della babele del mondo, sul cui palcoscenico ha immaginato il suo agire entro una suggestione tragica donchisciottesca.
Lo suggerisce anche l’immagine trascelta per la copertina del libro, tratta da un dettaglio d’una illustrazione d’una remota prima pagina della Domenica del Corriere, che illustra lo slancio folle ed eroico d’una figura già di spicco nella tradizione nazionalista italiana, e oggi ai più ignota: quella di Enrico Toti, che malgrado la perdita d’una gamba volle, nella guerra 15-18, andare in trincea, da dove scattò all’assalto, immolandosi, contro il nemico, a incitare i suoi, lanciando la stampatella.
È chiaramente una sintesi figurativa emblematica quanto l’immagine del megantropo voluta da Hobbes sulla copertina del suo Leviatano; trascelta dall’autore da un mondo defunto ed eccentrico nella sua suggestione di federalista europeo ed economista, a sintetizzare ironicamente in una immagine il senso della sua parabola umana, che il Narciso in lui ha spinto a tradurre in racconto letterario.
Che Mosconi abbia qualità di scrittura nulla lo dice quanto la gradevole leggibilità delle inevitabilmente ovvie pagine che raccontano la sua infanzia adolescenza e studi; la sua eleganza stilistica nella descrizione di persone e ambienti, tra il tempo delle aule scolastiche e il racconto degli anni di formazione presso l’istituto bancario San Paolo.
Qui la sua determinata capacità di lavoro, il modo di risolvere problemi aziendali e di rapportarsi con i colleghi gli attirano l’attenzione dei vertici dell’impresa.
Ecco perché, quando il direttore generale del San Paolo, aderendo all’invito di Gianni Agnelli, lasciò la banca per assumere la direzione finanziaria della FIAT, volle assolutamente che il giovane dottor Antonio Mosconi lo seguisse.
L’assunto del passaggio del dottor Rota alla FIAT era che il ragionier Valletta, già dominus della Fiat dagli anni della guerra civile, aveva sì, sulla linea del defunto Senatore, continuato a sviluppare l’impresa, facendone la prima produttrice di autoveicoli d’Europa, nonché un articolato gruppo industriale che spaziava dall’aviazione ai trattori, dall’edilizia alla progettazione e costruzione di grandi centrali elettriche.
Ma questo al prezzo d’un crescente accentramento autoritario, il cui effetto una staticità burocratica di orizzonti organizzativi, che andava profondamente rinnovato, pena il collasso della FIAT.
Questo assunto è il dogma che guida tutto il giudizio sul passato prossimo della FIAT di Gianni Agnelli, quando, alla morte di Valletta, decide di prendere in pugno la gestione dell’azienda: deve rinnovarla.
Di Bruto si vuole che Cesare dicesse: non sa quello che vuole, ma lo vuole assolutamente.
Alla luce dei fatti narrati dal Mosconi, è la giusta definizione che meglio s’attaglia all’avvocato Agnelli, perché il dogma che avrebbe guidato nel tempo la politica FIAT dell’Avvocato era: la FIAT post vallettiana va cambiata, soltanto che non gli era troppo chiaro né come né dove cambiarla.
Ne discese che ingaggiò e coinvolse nella direzione dell’impresa FIAT una serie di dirigenti apicali presi da altre imprese e importati nell’estraneità FIAT, a emendare la cattiva situazione lasciata dal ragionier Valletta.
L’Avvocato, se trascelse dall’organigramma interno Rossignolo, mandandolo alla Ford a riadeguarsi, ingaggiò Rota dal San Paolo, Tufarelli dalla Olivetti, Bolognesi dall’ENI, e poi Benedettini… e via procedendo fino a, su pressione e suggestione di Cuccia, Romiti.
Ognuno di questi manager si portava un suo gruppo, che doveva inserirsi nella complessa macchina della grande impresa, inevitabilmente provocando tensioni e conflitti, ma che ad Agnelli Gianni apparivano come effetti indotti del cattivo ordine lasciato da Valletta.
Ma chi era davvero Valletta?
Ai miei vent’anni, questa visione d’un Valletta accentratore e tirannico era diventata l’opinione corrente per i corsi di Torino.
Il caso volle che questo luogo comune: Valletta stava portando la FIAT al disastro, per fortuna che il buon dio l’aveva vocato a sé, e mandato l’Avvocato Gianni a salvare l’impresa, diventasse anche argomento d’una accesa conversazione, oggi vecchia di sessant’anni almeno, accaduta in un locale notturno di Torino ad ora tarda.
Una figura di vecchio di nobile tratto ascoltava e scuoteva il capo.
Seppi poi che era una delle grandi figure del teatro dialettale piemontese, che invitato a dire la sua, esordì, in torinese, perentorio: “An quatr parole ev lu spiegu mi chi e l’era al ragiunié Bal.tta e perché divetà padrun ad la Fabbrica Italiana Automobili Torino, cume a l’ha batzala D’Annunzio su richiesta del marcheisi Emanuele Bricherasi. Cul che a sta al centro dal quader ad Delleani ca celebra la fundasiun ad la cà automobilisica. E tra i persunagi del quader al Sentur a l’é mac an cumprimari. Ma pi nen quandi a l’ha ingagia al Ragiunié.”
Nel racconto dell’attore, che gli era stato grande amico, di origine napoletana, il ragionier Valletta era approdato a Torino ad esercitare l’attività del commercialista.
Il tribunale di Torino gli aveva affidato la gestione del fallimento Chiribiri, una casa automobilistica la cui officina e motoristica interessavano al cavalier Agnelli.
Questo lo indusse a salire, si era alla fine degli anni ‘920, la rampa di scale del civico di via Garibaldi dov’era lo studio Valletta. Chiese del ragioniere e fu introdotto. Espose il suo disegno al Valletta, che gli disse: di quel pane non intendeva mangiarne.
Ritenendo, per avidità, di aver offerto troppo poco al commercialista, aumentò l’offerta. Valletta invitò Agnelli a lasciare lo studio. Trascorsero alcuni mesi, il cavalier Agnelli fece le sue ricerche e riflessioni, e tornò a salire le scale dello studio commercialista di via Garibaldi, deciso a ingaggiare Valletta, l’unico uomo che non era riuscito a corrompere.
Il vecchio attore concluse poi amareggiato: il trasformismo del giovane padrone stava significando l’emarginazione e l’umiliazione di molte persone capaci, soprattutto di quel nucleo di personale femminile che aveva gestito la contabilità FIAT.
La ristrutturazione di Agnelli era voluta da una mente che non aveva un suo progetto, ma lo cercava attraverso questa e quell’altra suggestione manageriale. Il vecchio attore concluse con una profezia: il rischio che correva la FIAT era di essere destabilizzata dalle lotte di potere di opposti cardinali, in carenza d’un papa capace di governarli.
E questo si coglie in controluce anche dalla narrazione di Antonio Mosconi, che in primis ha un suo particolare rilievo storico.
Narrando il clima conflittuale dell’evo Gianni Agnelli: il continuo mutare del vertice apicale FIAT fino alla non proprio fausta stabilizzazione Romiti, la elegante penna del narratore traccia un quadro particolarmente chiaro della logica politico economica che ha portato l’Italia verso la destrutturazione del suo sistema industriale.
Nelle pagine di Mosconi incontriamo ministri quali Marcora, De Mita, Andreotti, De Michelis… grandi boiari di stato con i quali l’autore deve più e più volte trattare, in cene di lavoro delle quali traccia un elegante, e spesso sarcastico abbozzo.
E particolarmente suggestivo è il racconto del tribolato rapporto con il dominus del collasso FIAT, Cesare Romiti, la cui lucida intelligenza opportunistica valutava perfettamente le grandi qualità e il patrimonio di conoscenze economiche di Mosconi, fondate su una grande onestà intellettuale, delle quali Romiti seppe cinicamente profittare per vincere alcune difficili battaglie.
Un Mosconi, da parte sua, evidentemente ben determinato ad aspettare la inevitabile finale caduta di Romiti, per succedergli: raggiungere il vertice e guidare la FIAT accanto ad Umberto Agnelli, al quale si era legato, certo che Umberto, a differenza del fratello, possedesse una visione concreta dei problemi aziendali, ma non il coraggio militare, la pulsione narcisistica per affermarla, contro il fratello e le piccole massonerie aziendali FIAT, alle quali Mosconi riteneva di potervi supplire e giungere a guidare l’azienda in condominio con Umberto Agnelli.
Su questo disegno, appassionatamente perseguito, si abbatte la bufera mani pulite, a scansare la quale Romiti userà anche lo scudo umano Mosconi. Che non accetterà la parte assegnatagli.
In ragione della adamantina onestà, certo di potersi trarre da solo al di fuori del dramma giudiziario, combatterà una finale battaglia solitaria e disperata e contro l’impresa alla quale aveva dedicato la propria vita, e contro il luogo comune che nel giudizio delle toghe di mani pulite lo voleva tra i grandi corrotti-corruttori del sistema tangentopoli.
Le pagine sul carcere: i dolenti personaggi che lo abitano, e sulla battaglia legale: gli scontri con Di Pietro, sono un vivo prezioso documento storico, che fa delle memorie di Antonio Mosconi un prezioso specchio di un’Italia trascorsa, il cui racconto illumina il più trans storico dei comportamenti umani: la lotta di potere tra fazioni opposte intorno a un leader.
Nella lotta di potere per il primato nell’ambito FIAT, narrata da Mosconi, ho ritrovato lo stesso clima che si coglie nelle pagine della lotta combattuta tra Stalin e Trotzki (L. Trotzki, Stalin, ed. it. pp 465, Milano 1962).
È la infernale lotta che travaglia l’umanità, e della quale “Il giusto peso” è una amara preziosa testimonianza; che fa dell’autobiografia di Antonio Mosconi una importante scrittura, doloroso lacerante vivo frammento d’umanità, a procedere dall’iconologia della copertina, dov’è raffigurato il sacrificio di Enrico Toti.
Come di Enrico Toti per ragioni fisiche, anche l’operare di Antonio Mosconi in ambito FIAT, in ragione d’un rigore etico, si svolge in una situazione di permanente inferiorità tattica, coraggiosamente accettata in ragione d’una spinta etica kantiana.
È un Antonio Mosconi dolorosamente cosciente di muoversi, nell’ambito di corso Marconi, come Trotzki al Cremlino, sotto un cielo umano tragicamente trapunto di viltà e falsità.
Piero Flecchia
Molto interessante
Complimenti
Ernesto Ramojno