La sua duplice interpretazione della vita.
Non è facile ritrarre un personaggio così poliedrico, che nella vita ha passeggiato a mo’ di funambolo tra il rigore di una professione, dove ha raggiunto vertici come la presidenza della Corte dei Conti, del TAR del Lazio, del Consiglio di Stato, e la Poesia.
Forse ha realizzato la crasi tra le due istanze quando è stato Presidente dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, organo che detta regole per le attività di telecomunicazioni, radiotelevisive e vigila sulle stesse. Raggiungere gli interlocutori con parole più o meno poetiche, ma sempre incisive. Corrado Calabrò non si dimentica.
Nato a Reggio Calabria nel 1935, ha ricevuto un’impronta al limite della magia durante le estati dell’infanzia e dell’adolescenza a Bocale, un paesino a 15 chilometri dal capoluogo: la vicinanza del mare, le notti lunari, il contatto profondo con una vegetazione rigogliosa, ma soprattutto le letture “furiose” di testi come Relatività ristretta di Einstein hanno formato un carattere perfettamente in grado di primeggiare negli studi quanto di ascoltare il canto delle Sirene. Così nella vita ha affrontato le sfide che certamente non sono mancate…
Chiederemo a Corrado Calabrò di concederci un’altra intervista rivolgendo lo sguardo all’universo femminile: dalla scelta di due donne del passato che abbiano colpito la sua fantasia, potremo scorgere la proiezione della parte più intima del suo essere.
Vorrei che ci apparisse in versione divinità: quale il suo archetipo maschile?
Apollo e Dioniso: chiarezza e mistero. La chiarezza perché la poesia, per non essere autistica, deve comunicare in qualche modo, ancorché non in modo diretto.
La poesia non fa esposizioni o ragionamenti; la poesia comunica evocativamente.
Con una combinazione originale di parole consuete il poeta cerca di far percepire agli altri, emotivamente, la piccola rivelazione che l’ha fatto palpitare di gioia.
“I concetti creano gli idoli, solo lo stupore conosce” // “dallo stupore e non dal dubbio procede la conoscenza” osservava la Arendt, riprendendo l’affermazione di Giambattista Vico secondo cui senza la capacità di meravigliarsi nel profondo non c’è processo di conoscenza.
Il mistero: la poesia è un andar oltre, un oltrepassare la soglia del già detto.
“La cosa più bella che tu possa sperimentare è il mistero. Colui al quale l’emozione è sconosciuta, che non si ferma più a meravigliarsi e non rimane in piedi incantato, è come un morto, i suoi occhi sono chiusi” ha scritto Einstein.
E, come il volto di Minerva non poteva essere guardato direttamente né mostrato allo scoperto senza restare pietrificati, così la poesia deve dissimulare “il valore in sé” della sua rivelazione.
È tutto un gioco di dire e non dire; sì, come un gioco di sponda nel biliardo. Un gioco di senso-ultrasenso, il gioco dell’analogia, dell’allusione, attraverso cui si dispiega la funzione della parola poetica, che non è una funzione di comunicazione diretta, è una funzione evocativa.
L’analogia, la metafora, reprimono, rendono recessivo il significato usuale, corrente, convenzionale dell’espressione per farne intravedere uno ulteriore. La metafora è ancor oggi – a distanza di millenni da Sofocle, da Eschilo, dai lirici greci, a distanza di secoli da quando in poesia tutto sembra essere stato detto – uno strumento linguistico-psichico insostituibile per far sì che l’espressione verbale sia ancora ad-verba, tenda ancora al non detto. È così che la parola poetica realizza un superamento di significato. In questo senso la poesia ci apre gli occhi a una quinta dimensione.
È per questo che ho intitolato il mio ultimo libro di poesia Quinta dimensione.
Nascita del poeta prima del giurista?
Certamente. Ho inventato le mie prime poesie immature da bambino, prima di saper scrivere. I miei ne ridevano. Le prime pubblicabili, e poi di fatto pubblicate, le ho scritte nella prima adolescenza.
Come nasce la sua poesia? Sente un profumo, vede un’immagine, ascolta una musica… evoca ricordi?
Forse la vita è solo una piroetta nel vuoto, come dice Cioran, ma quanto più la realtà ci sfugge, tanto più sentiamo il bisogno di preservare l’unicità del nostro vissuto, la suggestione di un’alba sul mare, l’emozione del primo amore, il dolore per la morte di un nostro caro, il rimorso per un abbandono.
Emozioni, percezioni provate e perdute; forse rimosse.
La memoria volontaria non ci restituisce le percezioni trascorse. È solo la memoria involontaria che, come la madelaine di Proust, ci riporta il passato come se fosse presente. Siamo trasportati su una scala mobile della quale ci illudiamo di salire i gradini mentre i giorni e gli eventi ci scorrono accanto senza che possiamo fermarli, senza che possiamo arrestarci. “Noi ci immergiamo, e non ci immergiamo nello stesso fiume. Noi stessi, siamo e non siamo” (Eraclito).
La poesia, però, non è solo rievocazione. La poesia è evocazione.
Di cosa? Di quello che guardavamo con gli occhi di ogni giorno senza vederlo, ottenebrati dall’abitudine che è come una cataratta.
La figura più simbolica del poeta è Omero: il poeta cieco che non vede le cose usuali che lo circondano ma che, con un terzo occhio, vede in profondità nell’animo umano.
La poesia tende a far percepire in qualche modo l’ulteriore dimensione della nostra esistenza: quella che io chiamo la quinta dimensione, che si aggiunge ad altezza, lunghezza, profondità, spaziotempo.
La nostra visione della realtà è un miraggio.
La nostra è una visione olografica. In un ologramma noi vediamo appiattito in una dimensione quello che è tridimensionale (ad esempio il globo terrestre in una carta geografica). Quello che non percepiamo è molto più di quello che percepiamo.
La realtà che percepiamo non è un riflesso diretto del mondo oggettivo esterno; è il prodotto delle previsioni del cervello sulle cause dei segnali sensoriali in entrata. Per metamorfosi noi percepiamo con i nostri sensi informazioni che trasmutano la realtà che ci struttura e in cui siamo immersi.
“Il mondo come volontà e rappresentazione”: sostanzialmente aveva visto giusto Schopenhauer! Anche se, in realtà, il mondo che percepiamo è solo rappresentazione, anzi solo informazione; la volontà, come comunemente intesa, c’entra poco o nulla.
In ogni istante, nel nostro cervello, milioni di impulsi elettrici si inseguono come scie luminose in un luna park, sfrecciando lungo gli assoni fino a 480 chilometri orari, mentre quantità innumerevoli di sostanze chimiche saltano da una cellula all’altra scambiandosi informazioni. (1) Quei segnali elettrici e chimici sono trasformati dal cervello in immagini, suoni, odori, sapori. Il nostro, in certo senso, è un mondo soltanto simulato, metamorfizzato.
È una proiezione ingannevole come quella dei miraggi ma, a differenza di quelli, utile e gestibile nella nostra quotidianità, e che ha anche il vantaggio di allontanare i grandi interrogativi sulla nostra sorte.
Che cosa ci rivela la poesia? Ci rivela la valenza altra di qualcosa che portavamo dentro. Sentiamo che quelle certe parole, combinate in un verso, ci recano un messaggio; proprio il messaggio che inconsapevolmente attendevamo. Se non sovviene in qualche misura a un’attesa, se non genera un preannuncio, se non induce un presentimento prima e una sovradeterminazione poi, il messaggio resta sigillato, inerte, non entra in risonanza, non provoca quel trasalimento interiore ch’è il segno dell’attraversamento di una soglia di percezione.
La suggestione poetica viene a visitarci come il primo imprinting dell’amore.
È come il fiammifero di Prévert.
Ricorda quella poesia di Prévert, Tre fiammiferi accesi nella notte?
Un innamorato al buio su un ponte sulla Senna, accende tre fiammiferi: uno per vedere gli occhi, uno per vedere la bocca, un terzo per vedere il volto tutto intero della sua ragazza. In quel momento in cui il fiammifero si accende, in cui scatta il flash, siamo tutti poeti, dentro di noi. Ma è poeta solo chi riesce a far intravedere agli altri quel flash di bellezza che l’ha abbagliato.
La poesia cerca di dire in modo indiretto, allusivo, ma non finto, quello che attinge all’inesplicabile voce dell’inconscio, per aiutarci così a disvelare il mistero dell’essere, dell’altro noi stessi che è in noi. La poesia si fa in versi, ma non si fa per fare versi.
Nasce dal bisogno dell’illimite, di un orizzonte che si apra su un altro orizzonte, di un sipario mentale che s’alzi su un altro scenario, in un inseguimento senza fine. Esprimere l’indicibile è impossibile e al tempo stesso irrinunciabile, per qualche ragione che ci sfugge, come gli alpinisti non sanno rinunciare a scalare le vette più alte, perfino ad altezze dove manca l’ossigeno.
La poesia attraversa il vissuto e ne porta i segni e le cicatrici (le porte della comprensione sono l’amore e il dolore). Ma tende ad andare oltre, medianicamente, come nell’evocazione di presenze inafferrabili e che pure ci parlano. Il non vissuto preme oscuramente anch’esso per trovare espressione nella poesia; in questo modo attinge una qualche realizzazione, un suo mentale avveramento.
Ma c’è sempre qualcosa di più in quello che abbiamo intravisto rispetto a quello che siamo riusciti ad esprimere, persino nel verso più felice.
Come l’amore, la poesia si colloca fra la presenza e l’assenza, fra il contatto e la perdita di contatto.
Resta pur sempre sospesa tra l’inveramento della promessa e la negazione definitiva.
C’è nella poesia (ancor più che nell’amore, dove alla fine ci si può accontentare, acquietare) un bisogno di assoluto, come se alla scala di Jacob si aggiungessero sempre nuovi gradini in funzione del nostro desiderio di salire.
Malgrado tutto e tutti, avvertiamo un bisogno irreprimibile di rivelazione della bellezza. La scoperta di qualcosa che ci portavamo dentro, allo stato larvale, preconscio, cui solo il tocco di grazia dell’arte può dare una forma di vita.
(1) G. Maira, V. Carbone, Le età della mente, Solferino, 2020.
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