Assurdo omicidio alla Pellerina – 9 gennaio 1977
Il 1977 è un annus horribilis, definito da Mauro Anselmo come «anno di violenza e di sangue […] che ha messo a dura prova i nervi della città» su Stampa Sera del 31 dicembre di quell’anno, dove viene ricostruita la «incredibile serie nera di delinquenza comune e di criminalità politica».
Il giudizio appare sicuramente appropriato, anche se l’omicidio che apre questa «serie nera», commesso il 9 gennaio 1977 da Rodolfo Giacone alla Pellerina, non è legato alla criminalità politica o comune, ma ha una genesi assurda e allucinante.
I torinesi apprendono questa vicenda da Stampa Sera di lunedì 10 gennaio.
Domenica mattina verso le 9:00, Giuseppe Piazza, di 53 anni, caporeparto nella fabbrica di penne a sfera Walker di Settimo Torinese, esce dalla sua casa in via delle Magnolie 12, dicendo alla moglie e alle due figlie di essere diretto al suo orto, dove intende piantare bulbi di aglio.
L’orto di Giuseppe Piazza si raggiunge percorrendo una stradina che si stacca da via Pietro Cossa, subito dopo il ponte sulla Dora, fra Parella e Lucento, e raggiunge le sponde del fiume, tutte coltivate. Piazza è appassionato coltivatore di un terreno delimitato da un filare di vigna. È un uomo tranquillo, sposato e padre di tre figlie, una già sposata, le altre ancora in casa. Sei anni prima ha perso un figlio maschio dodicenne, Casimiro, annegato nel mare del Gargano.
Quando Piazza non rientra per il pranzo, la moglie, che conosce le sue abitudini metodiche e precise, decide di andarlo a cercare insieme alle figlie, usando la Mini del genero. Alle 13:00 lo ritrovano steso a terra contro un grosso salice. Non respira più, ma loro chiamano comunque l’autolettiga dei Vigili del Fuoco e lo fanno trasportare all’ospedale Maria Vittoria, dove i medici riscontrano la morte e avvertono le forze dell’ordine. Il cadavere di Piazza è stato colpito da sette colpi, tre al capo, al braccio destro, alla spalla e due alla schiena.
Nell’orto dove è avvenuto l’omicidio indagano i Carabinieri, che non trovano i bossoli, ma il brigadiere Cabras del Pronto Intervento recupera un proiettile schiacciato contro il salice.
Non emerge nessun movente che giustifichi l’uccisione: i Piazza sostengono di non avere nemici.
A risolvere il caso è il dottor Sebastiano Vinci, capo della Squadra Omicidi della Mobile, che ricollega la morte di Giuseppe Piazza alla denuncia di scomparsa del diciottenne Rodolfo Giacone, presentata dalla madre al Commissariato Madonna di Campagna, e alla notifica, fornita dai responsabili del Poligono di Tiro in via Reiss Romoli(1), dell’asportazione di una pistola, noleggiata da Rodolfo Giacone, il quale ha esibito il suo documento di identità che è stato registrato.
Giacone abita a Torino, in corso Potenza 86, e a questo indirizzo si recano due funzionari della Questura, i dottori Aldo Faraoni e Vincenzo Rosano(2). Rodolfo è assente dalla mattina, vi è il suo gemello, Filippo, un bravo ragazzo.
Emerge così la cupa storia di Rodolfo, orfano dall’età di tre anni, che ha risentito negativamente del nuovo matrimonio della madre Caterina. Non ha accettato il patrigno, parla di lui definendolo «quel bastardo». Si è creata così una situazione di tensione famigliare, aggravata dalle smanie di Rodolfo in conseguenza di una multa di 3.000 Lire che i Vigili urbani gli hanno fatto alla Pellerina per una infrazione con il motorino: si è messo in testa di avere un’arma per vendicarsi.
Per procurarsi una pistola è andato a Porta Palazzo, ha consegnato a un trafficante 250.000 Lire sottratte alla madre, ma lo hanno bidonato rifilandogli un mattone.
Questo fatto lo ha ulteriormente incattivito. I familiari, preoccupati, si sono rivolti a uno psichiatra che però li ha rassicurati: ha parlato di problemi dello sviluppo e gli ha prescritto uno sciroppo.
Nella sua fissazione di trovare una pistola, Rodolfo ha preparato con cura un piano squilibrato.
L’8 gennaio si è recato per la prima volta al Poligono di tiro, dove ha compilato la domanda ed eseguito alcuni spari, tanto da essere dichiarato idoneo. Ha affittato una Beretta calibro 22 e si è esercitato con le munizioni acquistate al Poligono. Non le ha consumate tutte e ne ha portato via una parte.
Alle 9 del mattino del giorno seguente, 9 gennaio, Rodolfo esce di casa. Non vi fa più ritorno e, alle 16:00, la madre segnala la sua scomparsa al Commissariato Madonna di Campagna: si dice preoccupata perché il ragazzo non è molto sensato e soffre di nervi.
Quella mattina, Rodolfo è ritornato al Poligono di tiro.
Ottiene con facilità una pistola a tamburo calibro 22 Arminius a canna lunga, a otto colpi, poi si allontana senza restituirla. Nelle tasche ha 150 colpi perché ne ha regolarmente acquistati 180 e ne ha sparati 30. Si dirige verso casa sua e, passando dalla Pellerina, sfoga il suo odio a caso, sparando a Giuseppe Piazza che lavora nel suo orto. Vuota il tamburo, sette colpi vanno a segno.
Desta grandi preoccupazioni il fatto che Rodolfo sta vagando armato e con molti proiettili a disposizione, ma alle 17:30 si costituisce ai Carabinieri di Settimo Torinese. Viene portato alla Caserma Cernaia di Torino. Ha rinunciato a compiere la strage progettata e ha consegnato il revolver. Dichiara: «Sono una vittima di questa società capitalistica».
Confessa anche di aver dato fuoco, in passato, a una dozzina di cantine del quartiere Madonna di Campagna, che ha terrorizzato. Pensava di riuscire a intrappolare i residenti perché le fiamme si alzavano dal basso, una situazione che – rammenta un cronista – ricorda il film L’inferno di cristallo del 1974.
Il caso è stato rapidamente risolto. Sui quotidiani, però, alle cronache si sono associate considerazioni critiche sull’incapacità dello specialista consultato di riconoscere le turbe mentali di Rodolfo e sulla scarsa sorveglianza messa in atto dai responsabili del Poligono. Particolarmente caustici i titoli di Stampa Sera del 10 gennaio «Lo curavano con lo sciroppo» e «Ha ottenuto l’arma anche se era pazzo». Ulteriore spazio è dedicato al parere del neuropsichiatra Anselmo Zanalda e si riferisce della lettera che Rodolfo ha indirizzato l’11 gennaio alla madre dove dice di sentirsi colpevole perché è un “bambino cattivo” che le ha dato un grande dolore.
Al termine dell’istruttoria, nel luglio del 1977, in base alla perizia del professor Ugo Fornari, Rodolfo Giacone è dichiarato non imputabile perché riconosciuto totalmente incapace di intendere e di volere. È affetto da mania di persecuzione e di grandezza, con gravissime alterazioni della personalità. Deve essere ricoverato in ospedale psichiatrico giudiziario per almeno cinque anni e sarà ricoverato al manicomio giudiziario di Castiglione delle Stiviere (Mantova).
Il caso a questo punto assume un aspetto paradossale.
I parenti della vittima, a seguito di questa sentenza, non possono chiedere ai Giacone un risarcimento, dal quale sono rimasti esclusi per un «gioco della sorte, in questo caso, particolarmente crudele», come scrive il cronista de La Stampa quando il 23 marzo del 1978 riferisce questo sviluppo della vicenda. La vedova, Vittoria Meli, ha presentato esposto-denuncia alla Procura della Repubblica nei confronti del Presidente, dei direttori e dei commissari di tiro del Poligono di Tiro. Spunti polemici per la negligenza del Poligono nella custodia delle armi, sono già emersi nell’immediatezza dell’omicidio sui giornali cittadini che ora si chiedono se il direttore del Poligono rischi di essere incriminato per omicidio colposo.
Da La Stampa del 31 novembre 1978 apprendiamo che i magistrati hanno scagionato i direttori e i commissari di tiro del Poligono. Quanto al Presidente, questi ha sicuramente delle responsabilità per omessa custodia dell’arma sottratta, da risolvere davanti al Pretore, ma non si può parlare di una complicità in omicidio colposo, perché la follia di Rodolfo non era riconoscibile all’esterno, fino a quel momento nessuno lo aveva riconosciuto per folle e niente faceva pensare al suo intento omicida.
Si conclude così questa vicenda assurda e allucinante che trova un adeguato commento nel detto Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato.
Note
(1) Nelle prime cronache giornalistiche si parla di Poligono di Tiro del Martinetto, ma in seguito si indica correttamente il Poligono di via Reiss Romoli. Il Martinetto è stato abbandonato dopo il 1967, quando è stato mantenuto soltanto il recinto delle esecuzioni. Fin dal 1938 è stato attivato un Poligono alle Basse di Stura, dove dal 1966 è stata tracciata la via Guglielmo Reiss Romoli.
(2) Il dottor Sebastiano Vinci è assassinato dalle Brigate Rosse il 19 giugno 1981 a Roma.
Il commissario Vincenzo Rosano viene ucciso il 2 febbraio 1977, a Torino, da un malavitoso evaso.
Il dottor Aldo Faraoni (Sutri, Viterbo, 1948-Torino, 2013) che ha iniziato la sua carriera nella Polizia a Torino il 7 ottobre del 1974, è stato Questore di Torino dal 2008 al 2013.
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