Il delitto del Capodanno 1976
Il 31 dicembre 1975 si conclude un anno ricco di avvenimenti luttuosi: il 13 marzo a Milano l’aggressione di Sergio Ramelli, che lo porterà a morte il 29 aprile; il 5 giugno la morte della terrorista Mara Cagol a Melazzo (Alessandria); il 30 settembre il Massacro del Circeo; il 2 novembre l’uccisione di Pier Paolo Pasolini a Ostia. Il 14 dello stesso mese Doretta Graneris stermina la sua famiglia a Vercelli. Sono avvenimenti che hanno avuto forte eco in Italia, ma che vengono ignorati dai frequentatori del night-club La Tavernetta di via Amendola 5, locale notturno dove si svolge il delitto che dà il battesimo di sangue al nuovo anno 1976.
La notte di San Silvestro La Tavernetta ospita una sessantina di clienti, alcuni frequentatori abituali. Non mancano personaggi equivoci prepotenti con la pistola in tasca. Verso l’una entra nel locale Carlo Barile, di 47 anni, titolare a Vinovo di una fabbrica di frizioni per auto con una quarantina di dipendenti. Barile, amico del gestore del night-club, è un cliente affezionato. Arriva alla Tavernetta per il veglione di fine anno in compagnia di Antonia Gasparotta, una bella ragazza di 28 anni, con la quale convive da cinque anni dopo la separazione dalla moglie.
La festa trascorre senza inconvenienti, tra champagne, musica e balli. Anche Carlo Barile balla a lungo con la giovane amica poi siede con lei a un tavolino riservato agli ospiti di riguardo. Verso le tre e mezzo, quando stanno pensando di rientrare, una ragazza rivolge alla Gasparotta, ancora seduta al tavolino con Barile, questa frase «Ma tu non hai lavorato a Milano? Io ti conosco».
«Forse c’è un equivoco – risponde la Gasparotta – mi hai scambiato con un’altra persona, non è possibile, io non ho mai lavorato a Milano e non ti conosco». Incuriosito, Barile vuole saperne di più: «Ma che genere di lavoro facevi, perché non me l’hai mai detto?». La Gasparotta tergiversa, ripete che è soltanto un equivoco, uno scambio di persona. Ma Barile, insospettito, insiste nel pretendere spiegazioni, poi, insoddisfatto delle risposte, sempre più infervorato, si fa strada tra le coppie di ballerini, batte sulla spalla della ragazza, che danza stretta al suo cavaliere: «Perché non vieni al mio tavolo, così mi spieghi bene questa faccenda di Milano?».
A questo punto la ricostruzione degli avvenimenti si fa particolarmente incerta.
Pare che Barile all’invito abbia aggiunto parole offensive, forse una pesante insinuazione sul tipo di lavoro che la donna poteva fare a Milano oppure un complimento tanto grossolano da apparire ingiurioso. Sta di fatto che il cavaliere della ragazza, Remo Capitaneo, di 28 anni, si risente e si mette a litigare con Barile. I due si avvicinano al tavolo, Barile brandisce una bottiglia e la spacca sulla testa di Capitaneo. Si prendono a pugni, scoppia una rissa. Accorrono due camerieri che a fatica trattengono Capitaneo e dicono in tono concitato a Barile: «Vada via, corra a chiudersi nei camerini delle artiste». A dar man forte a Capitaneo, è intervenuto qualche suo amico, che rincorre Barile nel corridoio dei camerini, invano trattenuto da camerieri e volenterosi, e sulla soglia dello stanzino dove Barile si è rifugiato, estrae una pistola e spara due volte attraverso uno spiraglio tra i battenti. Colpito alla gola, Barile cade a terra rantolante.
Qualcuno ha avvertito la Polizia e ha chiamato un’autoambulanza che, a sirene spiegate, porta Barile alle Molinette, dove giunge cadavere. All’arrivo di funzionari e agenti della Squadra Mobile, il night è quasi vuoto: lo sparatore e i suoi amici si sono dileguati, come la maggior parte dei clienti. Sul pavimento, vicino al corpo, viene trovata una pistola Bernardelli calibro 7,65, col numero di matricola limato. Chi ha sparato alla Tavernetta?
Gli inquirenti si trovano di fronte al consueto muro di omertà. In Questura si interrogano entraîneuses, camerieri e gestore e, nella serata di Capodanno, emerge una prima ricostruzione: a sparare è stato Michele Di Carlo, di 37 anni, noto come Michelone, che è stato visto con una pistola. La ragazza che ha rivolto la frase offensiva alla Gasparotta è Giuseppina Turci Canfora, di 19 anni, di Capri, che stava ballando con l’amico Remo Capitaneo. I tre vengono ricercati.
Tutti i protagonisti dell’assurdo delitto hanno precedenti penali. Michele Di Carlo, Michelone, è colpito da ordine di arresto per spaccio di banconote false. Remo Capitaneo è stato arrestato nel ‘73 per estorsione e più volte denunciato per gioco d’azzardo. Giuseppina Turci Canfora è stata arrestata a settembre per furto di auto e di passaporti, poi è stata allontanata da Torino con foglio di via obbligatorio e diffidata a ritornarvi per tre anni. Anche il gestore della Tavernetta e la stessa vittima in passato hanno avuto qualche problema con la giustizia.
Il caso pare dunque chiarito nelle sue linee essenziali, in particolare è stato individuato l’omicida. Il 2 gennaio Remo Capitaneo si costituisce. Ammette lo scontro con Barile, ma non ha sparato e non lo ha nemmeno inseguito nei camerini: sanguinava per la bottigliata in testa e stava male. È fuggito sentendo lo sparo. Questa versione appare poco convincente e Capitaneo viene arrestato. Sarà scarcerato dopo un mese, per insufficienza di indizi.
Intanto viene ricercato Michelone, che da latitante ha nominato un avvocato difensore di fiducia, e si parla dei suoi precedenti. Nel luglio del 1974, di notte, ha dato una lezione a una ragazza che “lavorava” in via Ormea, prendendola a pugni e minacciandola con un coltello, dopo aver cercato di investirla con l’auto. È finito in carcere per tentato omicidio, ma non ci è rimasto molto.
Dopo aver riferito i precedenti penali di questo e degli altri personaggi coinvolti, La Stampa del 3 gennaio 1976 commenta: «Ci si chiede: possibile che questa gente possa circolare in tutta tranquillità, magari con la pistola in tasca? Ogni volta che accade un grave fatto di sangue, si scopre che vi sono implicati personaggi della malavita con gravi precedenti penali, che però non sembrano mai sufficienti per trattenerli dietro le sbarre».
Mentre le ricerche di Michelone continuano, la prima versione pare trovare conferma in un nuovo interrogatorio di Antonia Gasparotta e, il 9 gennaio, viene fermata Giuseppina Turci Canfora, quando ormai l’interesse per il caso appare abbastanza diminuito.
In realtà, già dalla mattina del 2 gennaio si sta svolgendo una drammatica vicenda strettamente collegata all’omicidio avvenuto alla Tavernetta.
La scena si sposta in via Silvio Pellico n. 11, dove sul letto privo di lenzuola della camera 17 di uno squallido albergo a ore, viene trovata una giovane rantolante. È Rosetta Jannella, 18 anni compiuti il 13 dicembre, prostituta nota nel giro come «Loredana». Soccorsa e portata alle Molinette, rimane in coma. Secondo i medici, ha ingerito 150 pastiglie di sedativo Optalidon. Muore alle 11:00 del 13 gennaio (altre versioni parlano del 9), senza riprendere conoscenza.
Il giudice istruttore Corsi, che indaga sul delitto di San Silvestro, fa riesumare il cadavere di Rosetta-Loredana. Ha accertato che è stata lei a pronunciare l’infelice frase che ha provocato l’omicidio alla Tavernetta. Per questo motivo, il racket della prostituzione avrebbe deciso di toglierla di mezzo come testimone più scomoda. Nell’armadio della camera 17 la Polizia ha trovato un abito da sera macchiato di sangue. La perizia necroscopica accerta che Rosetta prima del suicidio è stata picchiata selvaggiamente, come provano le vaste ecchimosi sul suo volto.
Al 25 gennaio compare una nuova ricostruzione dell’omicidio di Capodanno, che vede un nuovo protagonista negativo, Angelo Santonocito, di 21 anni, catanese residente a Torino, già con precedenti penali significativi. Si ipotizza un suo ruolo nella morte per suicidio di Rosetta, come esecutore del racket della prostituzione.
A questo punto sorgono varie domande, molte delle quali restano senza risposta per mancanza di informazioni nelle fonti giornalistiche.
Perché da subito si è indicata Giuseppina Turci Canfora come la giovane che aveva indirizzato l’offensiva domanda all’accompagnatrice di Barile?
Perché le cronache riferiscono di due diversi fermi e/o arresti di Angelo Santonocito, a fine gennaio e poi a maggio, ma senza poi informare i lettori sulle sue dichiarazioni? Certo non era facile provare la sua responsabilità nel “suicidio” di Rosetta, le cui esatte motivazioni non verranno mai chiarite.
In mancanza di precise informazioni, si deve ritenere che sia stato rilasciato o che sia evaso – sport al tempo largamente praticato – e che abbia deciso di sparire dalla circolazione. Certo ha compiuto una significativa escalation nel mondo del crimine. Il 2 febbraio 1977 lo ritroviamo nel gruppo di malavitosi che uccide il commissario Vincenzo Rosano, in pieno centro di Torino. Muore il 17 maggio di quell’anno nelle Marche in uno scontro a fuoco coi Carabinieri.
Michelone viene arrestato soltanto il 2 luglio del 1977. Durante l’istruttoria si dice innocente e addebita il delitto a Santonocito, che ormai non può più scagionarsi.
Quando, il 24 novembre 1981, viene processato, Michelone decide di confessare, proponendo una versione “minimalista”: non conosceva la vittima, ha sparato per sedare la rissa dopo aver visto il suo amico Capitaneo col volto coperto di sangue. «C’era una gran confusione. Volevo sparare un colpo in aria, ma la pistola si è inceppata. Poi ho sparato contro un’ombra in fondo al corridoio, così, più che altro per paura».
A questa versione si accoda Capitaneo, processato a piede libero, che sostiene la versione data fin dall’inizio. Le cronache del processo non chiariscono il ruolo di Giuseppina Turci e di Rosetta Jannella perché non si riesce a capire con chi ballasse Capitaneo. Alla conclusione del dibattimento, la Corte d’Assise premia la versione di Michelone. Riceve una condanna mite a 12 anni e 2 mesi (1 anno e 2 mesi condonati), con la concessione di tutte le possibili attenuanti. Remo Capitaneo è assolto per non aver commesso il fatto.
La sentenza affaccia una provocazione da parte della vittima, il delitto non è nemmeno più «per motivi futili e abietti» e, secondo la definizione de La Stampa del 27 novembre 1981, sarebbe «Un delitto incredibile in cui hanno giocato un ruolo decisivo il chiasso, la musica e soprattutto lo champagne». Pare di assistere al terzo atto de Il Pipistrello, l’operetta di Johann Strauss (1874), quando i protagonisti attribuiscono la colpa di tutti gli intrighi amorosi allo champagne, il Re di tutti i vini!
Con tutto questo, Rosetta Jannella non ha ottenuto verità e giustizia. Lo stesso Lorenzo Del Boca, quando pubblica su Stampa Sera le sue cronache del processo, pare adombrare che l’unica rivalsa provenga dall’uccisione del suo carnefice nello scontro con le forze dell’ordine. Non è molto rassicurante il dover tristemente rilevare come nei confronti di questo personaggio, con pesanti responsabilità se non altro morali nei confronti di Rosetta, la giustizia non abbia potuto o saputo esplicare la doverosa severità.
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