L’omicidio di «Villa Triste», nell’Epifania del 1953
Location dell’omicidio dell’Epifania del 1953 è la zona dell’attuale piazza Cirene, nel quartiere Lucento, al tempo pochissimo antropizzata e nota come Barriera di Pianezza: una zona solitaria, tetra, uggiosa, nella prima periferia cittadina, priva di caseggiati e occupata da vaste distese di prati, dai quali verso sera sale una nebbiolina biancastra. All’incrocio di via Pietro Cossa con via Pianezza è ancora in attività il casello del Dazio. A poco più di un centinaio di metri di distanza, al civico 301 di via Pietro Cossa, si trova una piccola centrale elettrica della Step (Società Trazione Elettrica Piemontese) circondata da un muro. Non è più in uso, perché destinata ad alimentare i vecchi trenini delle linee Torino-Pianezza e Torino-Druent, ormai da mesi sostituiti da pullman. Viene ancora custodita, per impedire intrusioni di ladruncoli, ma il personale della Step si considera quasi in punizione quando vi deve prestare servizio. In zona, la centrale è designata come «Villa Triste», appellativo che al tempo ricorda i luoghi di detenzione, presenti in varie città italiane, utilizzati dai reparti speciali di Polizia che, nel periodo della Repubblica Sociale Italiana, operavano in stretta collaborazione con SS e Polizia politica nazista. Qualcuno ha addirittura scritto col carboncino «Villa Triste» sul muro perimetrale della centrale.
Nei primi giorni del nuovo anno 1953, sono incaricati della sorveglianza due anziani custodi: Giuseppe Galetto, di 62 anni, e Sisto Rosso, di 65, che si alternano ogni 12 ore, di solito verso le 7 del mattino, ma senza orario un preciso poiché nessuno controlla i loro accordi amichevoli.
Nel mattino dell’Epifania, verso le 10:00, Sisto Rosso giunge alla centrale per dare il cambio a Giuseppe Galetto. Dopo una camminata piuttosto lunga dal capolinea del 13, apre il cancello, attraversa il cortiletto e si avvicina al locale adibito a dimora del custode. Quando apre la porta, resta inorridito: il suo collega è a terra, riverso, con il viso sfondato da una ferita. Attorno vi è sangue. Il lettino è sottosopra e il materasso a brandelli. Rosso, terrorizzato, esce indietreggiando, raggiunge la strada e si mette a correre, come può, verso il casello daziario. Arriva sfinito e ci vogliono diversi minuti perché il Vigile di servizio si renda conto che Rosso non è ubriaco. Si telefona ai Carabinieri di Lucento e alla Questura. Alle 11:00 giungono il dottor Maugeri, capo della Squadra Mobile, e il dottor Sgarra.
Giuseppe Galetto, la vittima, è semisvestito. Al momento dell’aggressione dormiva o si era appena alzato, inoltre l’assassino ha frugato nei suoi modesti vestiti. Gli ha portato via l’orologio, il portafoglio e persino le scarpe. Il letto è sottosopra, il materasso squarciato e tutto l’ambiente messo a soqquadro. La vittima abitava a Druent con la moglie e una figlia nubile. Una seconda figlia è sposata. Da molti anni dipendente della Step, non aveva mai destato lamentele.
I fotografi della Questura entrano nella stanzetta del delitto per compiere i rilievi. Il medico legale, dopo una rapida occhiata, dichiara che è stato abbattuto prima che potesse reagire. I colpi sembrano almeno due, il più violento ha sfondato l’osso frontale. La morte risale a 5-6 ore prima. Nel cortiletto esterno si trova, infissa nel terreno molliccio, una sbarra di ferro, lunga più di mezzo metro, con tracce di sangue.
Rosso racconta agli inquirenti di un tentativo di furto nel tardo pomeriggio del 3 gennaio mentre lui era andato a bere all’osteria: ignoti erano penetrati nella centrale e avevano messo sottosopra la stanza del sorvegliante: «Forse volevano i miei soldi». In effetti, il custode Sisto Rosso è tipo strano, fin troppo religioso, che vive separato dai figli mentre la moglie è ricoverata all’ospedale, noto nelle osterie dei dintorni perché è un risparmiatore e possiede un bel gruzzolo che porta con sé nel portafoglio, che talora ostenta con compiacimento. È lo stesso Rosso a indicare un giovane biondino veneto di nome Gioanin, che ha conosciuto in una osteria di Lucento. Rosso si è vantato di possedere forti somme di denaro, il biondino gli ha chiesto in prestito 10.000 Lire, lui ha rifiutato e il biondo ha manifestato malanimo nei suoi confronti. La Squadra Mobile dispone così vasti rastrellamenti nelle bettole del quartiere.
Alla sera dell’Epifania, alle 22:30, il dottor Maugeri, dirama un comunicato laconico, ma sensazionale: «L’assassino è stato arrestato. Si tratta di Giovanni Patrian, di 25 anni, proveniente da Rovigo. Di professione fabbro. Egli ha già confessato. Altro per ora non possiamo comunicare».
Questo annuncio ufficiale giunge dieci ore dopo l’inizio delle indagini, inizialmente condotte nelle osterie, sulla scorta delle indicazioni di Rosso. Sono state basilari le indicazioni fornite da un fabbro del quartiere che ha avuto alle sue dipendenze un Gioanin veneto, capace, ma svogliato, che ha dovuto licenziare. Questi cercava in zona una pensione che viene identificata in via Cardeza. Poco dopo le 19:00 si conoscono non soltanto le generalità del sospetto, ma anche la sua abitazione, dove, nella sua stanzetta, sotto una sedia si trovano le scarpe prese alla vittima. Vengono interrogati i conoscenti del presunto assassino per scoprire dove si trovi.
È stato visto nel pomeriggio, pochi minuti prima dell’arrivo degli agenti, mentre rientrava in casa e poi ne usciva subito. Qualcuno dice che quasi certamente è andato a ballare in una sala della barriera di Francia ed effettivamente Giovanni Patrian è arrestato alle 21:30 nella sala da ballo Genuino di via Bellardi mentre ride e scherza con alcune sfiorite entraineuses.
In Questura, dopo iniziali dinieghi, quando vede apparire Rosso, Patrian non può far altro che confessare. Odiava Rosso perché ricco, mentre lui era poverissimo e pieno di debiti. Ha deciso di rapinarlo. Ne ha studiato le abitudini e ha tentato il colpo una prima volta, il 3 gennaio tra le 18:00 e le 19:00, ma Rosso era andato a bere. Ha rubato dei rottami e una rivoltella, che poi ha nascosto sulle sponde della Stura, dove viene ritrovata. Questo primo insuccesso non lo ha fermato. Verso le due del mattino dell’Epifania è tornato alla centrale. Per farsi coraggio ha bevuto, ma senza ubriacarsi.
Patrian sostiene di non avere avuto intenti omicidi, voleva soltanto stordire Rosso, per rubargli i soldi, ma gli elementi raccolti contraddicono queste sue affermazioni. Ha frugato nelle tasche del Galetto dove ha trovato soltanto 150 lire. Ha tagliato la fodera del materasso, nella speranza che Rosso vi tenesse nascosto il denaro, ma non ha trovato niente.
Per redigere il verbale della sua confessione non occorre più di un’ora: quattro fitte pagine per descrivere l’efferato omicidio.
Il 7 gennaio, alle 9:30, Patrian viene portato alla centrale per un sopraluogo. È un giovane esile, biondo, con lineamenti regolari. Si scrive che ha 25 anni, anche se in seguito emergerà che è nato il 30 maggio 1929 a Lendinara di Rovigo; quindi, non ne ha ancora compiuti 24. Appare più giovane della sua età e mostra di aver attraversato traversie ed esperienze di ogni genere. Veste di scuro con una certa ricercatezza: per andare a ballare ha indossato gli abiti migliori. Deve essere robusto, visto che la sbarra di ferro pesa almeno 25 chili. Le cronache lo presentano come forse non perfettamente equilibrato. Al momento dell’arresto è apparso sottomesso e rassegnato, poi in Questura si è mostrato beffardo e arrogante, con contegno cinico e sprezzante. Al sopraluogo è giunto calmo e sereno, ma quando è uscito dopo un’ora, aveva gli occhi lucidi di lacrime.
Si aggiungono ulteriori informazioni sul delitto e molte sono indicative suo crudele comportamento: dopo l’omicidio, Patrian ha trovato sul tavolo la colazione già preparata da Galetto: vi era un bicchiere di vino e lui lo ha bevuto. All’autopsia della vittima, oltre al fatto che con la sbarra sono stati vibrati ben otto colpi, è stata repertata una vasta ecchimosi sul petto. Viene spiegata come causata da un calcio violento, forse sferrato perché Patrian era furibondo per il magro bottino. Lui sostiene di aver dovuto calpestare il corpo di Galetto per non cadere a terra.
Si annuncia un’istruttoria con rito sommario, della durata di 15-20 giorni, e a febbraio sarà celebrato il processo. Patrian ha avuto un’infanzia dura e difficile, è cresciuto fra stenti e malattie, ha spesso vissuto da sfaticato vagabondo tanto che suo cognato lo definisce «un ozioso, sempre in cerca di ragazze». La madre abita alle Casermette di Altessano, dove nella misera abitazione sono stati trovati un giaccone sporco di sangue, un orologio e il portafoglio della vittima, oltre agli abiti insanguinati che Patrian indossava al momento dell’omicidio.
L’ultima notizia appare su La Stampa del 10 gennaio: il magistrato inquirente ha interrogato i familiari di Patrian e della vittima, nella caserma dei Carabinieri di Venaria. Il cronista si chiede se Patrian sarà sottoposto a perizia psichiatrica.
Dopo 26 giorni di indagini, La Stampa, il 4 febbraio annuncia che è stato rinviato a giudizio per omicidio a scopo di rapina. Il processo si apre il 25 febbraio in Corte d’Assise. La perizia psichiatrica è stata negata e il difensore, l’avvocato Bruno Segre, rinnova la richiesta nel corso del dibattimento, per evitare il prevedibile ergastolo al suo assistito. Ne elenca le motivazioni: a quattro anni è stato investito da un’auto; il nonno paterno era alcoolizzato; lui stesso è un forte bevitore; ha dato prova di un comportamento anormale. La richiesta viene respinta.
Patrian al dibattimento sostiene che Galetto gli ha aperto la porta con un martello in mano e lo ha colpito, così lui ha dovuto difendersi. Sono affermazioni incoerenti coi reperti, Galetto teneva in mano un giornale, il tutto appare come una maldestra trovata per sminuire la responsabilità.
Il Pubblico Ministero, nella sua requisitoria sottolinea che «Viviamo in un’epoca in cui sono i giovani a commettere i crimini più nefandi» e ammonisce i giudici «Non lasciatevi commuovere da sentimenti pietistici verso i giovani traviati, guardiamo la realtà e pensiamo a salvare la società dagli elementi pericolosi».
Il difensore Bruno Segre insiste sulla necessità di una perizia psichiatrica, sostiene la tesi del martello impugnato dalla vittima, sottolinea la vita travagliata del suo assistito, orfano di padre, e chiede le attenuanti generiche. Prima che la Corte si ritiri per decidere, Patrian si alza in piedi e dice senza convinzione: «Chiedo perdono ai parenti della vittima». Da notare che le due figlie e la vedova di Galetto non si sono costituite Parte Civile. Alle ore 17:30 viene letta la condanna all’ergastolo
Nella mattina del 29 gennaio 1954 l’ergastolo è confermato in Appello. Il Pubblico Ministero sostiene che Patrian «può e deve essere considerato, secondo l’espressione del Lombroso, un delinquente nato perché privo di qualsiasi barlume di senso etico». Il difensore annuncia il ricorso in Cassazione.
Prima, Patrian dovrà essere processato per una serie di furti commessi nel Biellese. Fino al suo arresto era incensurato. Ha confessato questi furti per vendicarsi del complice che non ha spartito con lui il bottino. Gli ha scritto per avere 15.000 Lire, lui ha rifiutato e allora Patrian si è rivolto alla Procura di Biella. Sono reati di minore importanza rispetto all’efferato omicidio, ma questo comportamento può aiutare a valutare il suo carattere.
La Cassazione ha confermato l’ergastolo, come si legge su La Stampa del 5 febbraio 1955. È una breve notizia che insiste sull’efferatezza dell’omicidio commesso nell’Epifania di due anni prima, che abbiamo rievocato a 70 anni di distanza.
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